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TURCHIA: 10 giorni alla scoperta della “terra di mezzo”

“Si abbandonava al dolce far niente, al kief, come dicono i turchi, il girovagare senza meta in balìa del vento e del caso.” George Simeon

La necessità di viaggio è un’istinto semplice, nasce dal curiosare, dalla fame “d’altro” e molto spesso anche dalla noia. Questa volta il mio appetito mi ha portato in una sorta di “terra ponte”, colei che congiunge col suo turchese, Europa e Asia, avamposto bizantino e ottomano, patria dei dervisci e del più profondo misticismo: sua maestà la Turchia.

ISTANBUL
L’arrivo ad Istanbul è fragoroso, da subito il vento del Bosforo si è palesato in tutta la sua arroganza, mai avrei immaginato una sferzata di energia così potente e fresca. Gatti, gabbiani e cani sono stati i primi ad accogliermi, la città ne è piena, ma per loro si nutre solo grande rispetto, in particolar modo per il mondo felino, lascito culturale islamico, poiché come narra la leggenda, Maometto fu disturbato in preghiera propio da un gatto, che venne da lui benedetto, idolatrandolo ad animale sacro.

La città si palesa come un decadente caleidoscopio di figure, sapori ed odori, avvolta dal più profondo huzun, quel sentimento a metà fra tristezza e nostalgia che ben si sposa con i palazzi che si stanno sgretolando o le yali, antiche case in legno che danno sul Bosforo, vanto per i villeggianti. Istanbul sa tener ben nascosti i suoi tesori e solo il viaggiatore più paziente sa attendere la meraviglia che essa giace con somma bramosia, rimango però basita dalla rappresentazione che i media danno di questa città , iper moderna e tecnologica, creando un’immagine totalmente distorta della realtà, la sua decadenza è infatti un punto a favore non un difetto.

La mattina di esplorazione verso la vecchia Costantinopoli comincia dal quartiere sacro ai musulmani: Eyup. Quartiere assai bistrattato poiché fuori dalla comfort zone turistica, mostra la più genuina spiritualità di Istanbul. La prova lampante di tutto ciò è una moschea, quella di Eyup Sultan, priva di file e turisti ma abitata solo da fedeli in preghiera; un luogo in cui il silenzio ed il rispetto per il culto passa per osmosi verso il visitatore, che non osa proferire parola, tuttavia grato per una così intima condivisione di preghiera. Questa moschea è il luogo migliore che possiate visitare ad Istanbul in termini di autenticità religiosa; prezioso anche il Turgay Hantal Mezarlık, cimitero islamico che occupa tutto il versante della collina che dà sul corno d’oro; impressionante vedere la serie infinita di lapidi disposte uno dietro l’altra, avvolte da un silenzio estemporaneo ( potete inoltre accedere alla moschea passando direttamente dal cimitero).

Moschea Eyup Sultan

Dopo tanto misticismo, sono i colori del vivace quartiere di Balat, che mi riportano nella modernità occidentale di Istanbul. Balat nasce da una riqualificazione assai creativa del quartiere ebraico. Inutile dire che è un bagno di trash e cianfrusaglie, non aspettatavi caffè alla moda; l’effetto decadente non si nasconde neppure con l’uso di tanti colori, tuttavia spazza via il lato tanto serioso di questa città grigia che può apparire molto dogmatica e poco allegra. A Balat ci si abbandona al dolce far niente, al “Kief” quell’odore, come affermano i turchi, dolce e speziato, che poi non è altro che l’odore di tutta la Turchia. Non perdo tempo ed assaggio il mio primo caffè turco così sabbioso ma al contempo intenso e pulisco il mio palato con un gelatinosissimo lokum alla vaniglia e mandorle , tipico dolcetto turco servito con tè o caffè.

La mia visita spirituale riprende subito dopo la digestione, così il pomeriggio mi ritrovo con un piede a destra, verso il Corno d’Oro, ed uno a sinistra nel quartiere di Eminonu. Davanti ai miei occhi, la grande, grigia e bellissima Moschea Yeni Camii ( la moschea “nuova” =yeni”), le cui fondamenta furono poste per ordine della Sultana Safiye, nuora della regina madre (tutta veneziana), Cecilia Vernier. Una delle più imponenti e maestose moschee di Istanbul, chiaramente brulicante di turisti ma non per questo meno sorprendente. Comincio ad automatizzare l’usanza di coprirsi il capo con un velo e togliersi le scarpe prima di entrare dentro la moschea, a differenza di molti che vedono questi luoghi di culto come consequenziali ed identici, io vago con il naso all’insù per scrutare ogni minima variazione cromatica o dettaglio dettaglio decorativo originale, ma forse è la mia fame di meraviglia che mi anima e rende tutto luminoso, nuovo e strabiliante.

Quanto a mercati e bazar, va detto che il Mercato Egiziano delle Spezie, è forse l’unico meritevole di visita, al contrario del Grand Bazar che non è che una mera rivendita di abbigliamento contraffatto. Il mercato egiziano è ciò che ci si aspetta da Istanbul: un lungo corridoio labirintico di spezie, in cui il vostro naso incontrerà nuovi aromi ed il vostro palato assaggerà la più diabetica e dolce pasticceria turca, ( non lasciatevi perdere i diabetici, nonché strabordanti di miele baklava) . Con le sue bancarelle che propongono spezie di ogni tipo, caffè, dolci e frutta, me ne torno stordita ma letteralmente sazia verso l’hotel, in una Istanbul che si accende per incontrare le luci del tramonto sul Bosforo, un’atmosfera che lascia senza fiato e di cui non ho foto tant’è lo stato di beatitudine in cui stavo vagando.

La mattina successiva mi dirigo verso la Moschea del Sultano Ahmet famosa come Moschea Blu, conosciuta per le sue maioliche del XVII secolo, pure sapendo che è completamente coperta da impalcature per via della sua ristrutturazione, l’ostinatezza a volte è un problema. Ovviamente non ho potuto che scorgere qualche pezzo di cupola, tuttavia la resa era piuttosto misera, ragione per cui consiglio di informarmi sullo stato dei lavori, qualora fossero ancora in corso potete tranquillante evitare di entrare, purtroppo non si è in grado di percepire la sua magnificenza con tutte quelle impalcature.

Giungo verso quell’edificio che ha alimentato tutte le mie fantasie di viaggio: la Chiesa di Santa Sofia. Non fatevi ingannare, la sua storia la dice lunga, essa nacque per l’appunto come chiesa, voluta da Teodosio II nel 532, nonostante ciò essa rappresenta la schiacciante vittoria dell’islam sul cristianesimo, poiché fu trasformata in moschea, per volere di Mehmet II, durante la presa della città da parte degli Ottomani, che nel 1453, coprirono i mosaici con della calce, costruirono minareti e fontane. Rimasero comunque ammaliati dalla maestosità dell’edificio, tanto che servì come fonte d’ ispirazione per le moschee che costruirono in seguito. Entrando è palese come l’architettura islamica che è tendenzialmente poco sfarzosa, poiché umile, abbia voluto in questo caso dare la sua massima rappresentazione lussureggiante. Sopra la vostra testa una “glassa d’orata” fatta di mosaici abilmente restaurati e all’entrata ciò che resta di quelli cristiani, che vengono coperti solo durante gli orari di preghiera. Credo che la sola vista di Santa Sofia valga il viaggio ad Istanbul.

Nel pomeriggio la visita prosegue nel Palazzo Imperiale di Topkapi. Ah, se quelle mura potessero parlare. Il palazzo nasce come sontuosa dimora del Sultano Maometto II, da lui progettato nel 1459, la cui architettura con le magnifiche decorazioni e gli arredi rendono testimonianza della potenza e maestosità dell’i􏰅mpe􏰀ro ottom􏰅an􏰁o. Nezin, la mia guida, afferma che i sudditi di Maometto II, ribattezzarono il nuovo complesso con il nome “Palazzo della felicità”. Le norme imposte dal sultano prevedevano un rigido protocollo di corte e ferree etichette da seguire alla lettera. Una su tutte: il totale silenzio all’interno dei cortili del palazzo. Qui si può ammirare di tutto: dai giardini privati a quelle che un tempo erano le cucine, con esposti cristalli, argenti e porcellane cinesi. Quest’ultime, erano la vera passione del sultano: non solo per la loro raffinata manifattura, ma anche perché si riteneva che a contatto con i cibi avvelenati cambiassero colore.

Con un biglietto extra rispetto a quello di entrata, decido di addentrarmi nell’harem di Palazzo Topkapi, luogo privato e vietato a chi non facesse parte della dinastia dei sultani. La parola “harem” infatti significa privato, e per questo definiva tutta quella zona del palazzo più intima. Ci vivevano la famiglia del sultano, le tante mogli, figli, concubine ed eunuchi: le 300 suite a disposizione potevano ospitare fino a 500 persone. Da subito si intuisce la segretezza di questa “residenza nella residenza”; i dormitori delle concubine sono un grande stanzone di legno e pietra, molto differente dalle sontuose stanze del palazzo principale; nonostante ciò le aree atte al sultano come il fumatoio, sono ben decorate e non mancano fini decori di maiolica e pietra intarsiata d’oro. L’Imperial Hall, Hünkâr Sofas, sicuramente la stanza dell’Harem più sbalorditiva. Ben trecento sale, disposte in un susseguirsi di corridoi, chiostri silenziosi e cortili segreti, riservatissimi. Girando per questo luogo intimo si sentono gli echi delle storie della servitù e dei reali, tra intrighi e segreti, in compagnia di una numerosa corte di eunuchi, cortigiani e avvenenti concubine. Infine, da non perdere la meravigliosa vista sul Bosforo al tramonto, la stessa che i Sultani ebbero per 400 anni di regno nel Palazzo Topkapi di Istanbul. Questa zona merita d’esser vista, aggiunge sicuramente valore e comprensione di un’epoca remota fatta di silenzi; tenete ben presente che solo l’harem richiede come minimo 40 minuti oltre a tutto il resto del palazzo. Una visita “degna” si aggira sulle 3 ore.

Imperial Hall

Saluto Istanbul dalla sua zona più suggestiva: il Bosforo. Non ho resistito alla romantica esperienza del battello. Questa città così decadente, crocevia di mille popoli raggiunge il suo massimo splendore durante il magico tramonto sul Bosforo, dove la disperazione diventa onirica poesia. Non è solo questa la ragione per cui solcare il Bosforo, da qui ho potuto ammirare con mia grande sorpresa la raffinatezza delle Yali, queste sofisticate abitazioni costruite proprio nelle sponde anatoliche, vessillo dell’architettura turca d’èlite.

ANKARA
Lascio Istanbul all’alba con un arrivederci. Ankara è la seconda tappa, da cui non so cosa aspettarmi. La nostra conoscenza inizia con la visita del Museo Ittita (delle civiltà anatoliche), in cui respiro 10 mila anni di storia in tre ore. I reperti risalgono alle prime civiltà che popolarono l’Anatolia a partire dal Paleolitico, proseguendo con quelle del Neolitico, dell’Età del Rame, dell’Età del Bronzo e poi ancora con gli assiri, gli ittiti, i frigi, gli urartei e i lidi. Nei piani sottostanti, sono custoditi manufatti del periodo classico greco e romano e ospitano una mostra dedicata alla storia di Ankara. Consiglio: iniziate con la mostra dedicata al Paleolitico e al Neolitico nella sala a destra dell’ingresso, procedendo in senso antiorario fino al fine della visita, nella sala centrale. Velocemente si riparte alla volta di un magico lago salato.

A 150 km dal centro di Ankara, il secondo stop della giornata ha velleità completamente naturalistiche, si tratta del Lago Salato di Tuz Gölü. Avevo totalmente sottovalutato questa tappa, quasi da volerla saltare. Ciò che mi sono trovata difronte è un territorio lunare, bianco, puro, una distesa di luce, resa possibile dalla solidificazione del sale in cui mi sono dilettata a passeggiare per più di un’oretta. Grata per la bella sorpresa di viaggio, si riparte verso la vera ragione del mio mio viaggio: la Cappadocia.

CAPPADOCIA
Al mio arrivo l’altitudine si fa già sentire, 11 sono i gradi del tramonto dorato in questa valle magica. La sveglia segna 3:30, si perché il sogno di un’intera vita avrà luogo all’alba: solcare il cielo in mongolfiera ammirando il surreale paesaggio che offre la Cappadocia. La tensione è alta, poiché per ben tre giorni i voli non sono stati effettuati causa vento, così mi cheto sotto le coperte con una preghiera. Ore 5:00, dopo un oretta di bus raggiungo una delle aree adibite al volo, tutti sembrano sereni, le mongolfiere iniziano a decollare lentamente, quasi danzando. Pian piano fluttuo in un cielo color vaniglia, e no, non c’è la capra dipinta da Chagall a suonarmi il violino, ma il pezzo Myth dei Beach House che riecheggia in cuffia. Tutto sembra perfetto, meglio di un sogno, poiché vero! Il Times inserisce questa avventura tra le sue 100 esperienze di viaggio da fare una volta nella vita, io la porrei anche fra le prime 10 vista l’immensa beatitudine che questo volo mi ha infuso.

Dopo un ora sospesi in un paesaggio sognante, mi attende un’intera giornata dedicata alla scoperta di questa suggestiva regione dai paesaggi quasi lunari: i celebri “Camini delle fate”, funghi di tufo vulcanico creati da secoli di lavoro dell’acqua e del vento. Tuttavia ciò che ha catturato la mia attenzione è la bellezza del Museo all’aperto di Göreme con le sue chiese rupestri le cui pareti sono ancora intrise di ansia e paura, sentimenti che divoravano i cristiani che in quei tempi dovevano nascondersi dalla furia mussulmana. Il mio tragitto prosegue verso la Valle di Uchisar, situata all’interno di un cono di roccia tufacea, la “Matera turca” ; la Valle di Avcilar nota per il richiamo a genitali maschili delle sue rocce da cui nasce il nome di Love Valley, ed in fine la Valle di Ozkonak (o Saratli), una delle città sotterranee più famose del mondo in cui è molto facile perdersi se non si ha una guida di riferimento.


KONYA
Dopo un milione di ore di viaggio via terra, non distante da Konya, attraverso valli e catene montuose, giungo al Caravanserraglio di Sultanhani (XIII secolo), gioiello dell’arte islamica del periodo selgiuchide, uno dei meglio conservati dell’Anatolia. Esso veniva usato in passato come area di sosta delle carovane che percorrevano la via della Seta in direzione della Persia, un luogo storicamente magico e di valore per tutti i viandanti che hanno solcato queste terre; oggi è diventato un museo. Esso altro non era che un edificio atto a ospitare e custodire carovane e viaggiatori, che accoglieva, ristorava e proteggeva dai malintenzionati, sia i viandanti che mercanti. Inevitabile non riflettere su come il viaggiare, anche per commercio sia cambiato, penso ai quei poveri mercanti che per pochi denari vagavano per terre lontane e deserte, alla mercé di mal intenzionati, ma che forse sperimentarono per primi le esperienze di viaggio più autentiche della storia.

L’arrivo Konya mi vede stanca e un pò dormiente, tuttavia questa città legata al fondatore dei Dervisci, (Mevlana un mistico musulmano contemporaneo di San Francesco), non manca subito di affascinarmi con il suo silenzio alternato a richiami di preghiera. Konya ha più di 1 milione di abitanti, famosissima in tutto il mondo per il filosofo e religioso Mevlana che nel 1200 introdusse per la prima volta i Dervisci rotanti. Il suo mausoleo è un luogo che trasuda misticismo, i suoi fedeli sono spesso in una sorta di posizione del loto, oppure inginocchiati ad occhi chiusi; la presenza di pochissimi turisti permette di condividere e sperimentare tutto il nichilismo religioso di chi giunge in questo luogo sacro.

La parola “derviscio” significa “povero”, tuttavia indica un discepolo che nel suo percorso di purificazione e distacco dalla materialità si avvicina a Dio compiendo balli in cui rotea su se stesso.
Essi sono asceti il cui scopo principale è il raggiungimento dell’estasi mistica. La sera stessa decido di partecipare ad uno spettacolo di dervisci danzanti pur consapevole che si tratti di una riproduzione turistica, poiché l’unica data in cui i dervisci eseguono questa pratica è ogni 17 dicembre. Nonostante ciò, riesco ad apprezzare lo spettacolo poiché fatto col medesimo rigore e la stessa serietà della rappresentazione ufficiale. I cellulari non sono ammessi e nessuno può filmare per l’ora dello spettacolo, solo al suo termine i dervisci per un solo minuto, regalano la loro immagine agli spettatori muniti di dispositivi. Le musiche sono ataviche ed il loro movimento quasi un vortice di espiazione, a mio avviso un’esperienza che porterò dentro per molto tempo ancora.


PAMUKKALE
Ciò che mi aspetta in questa penultima tappa sono ampie rovine di una ricca città romana con la sua grande necropoli e teatro: l’antica Hierapolis , patrimonio UNESCO, che ricostruita nel 17 d.C., ebbe il suo massimo splendore nel II e III secolo. Essa sorge sulla sommità delle idilliache cascate termali del parco naturale di Pamukkale. Nel mio immaginario qui le persone se ne stavano a bivaccare tra meravigliosi spettacoli canori e bagni rilassanti in acque termali paradisiache, ma questa è solo la mia fantasia. Dopo trenta minuti a piedi raggiungo lo splendido teatro in cui un gruppo di tenori americani, anche loro turisti in visita, stanno cantando la nota canzone di Enrico Caruso “O Sole mio”, tutto sembra perfetto ed al suo posto. Seduta nei giardini di un teatro antico, mi lascio trasportare dalla magia del momento, che cos’è un viaggio se non un puzzle di istanti idilliaci ?

Cerco di rinvenire dal mio profondo stato di beatitudine e mi dirigo verso la zona termale di Pamukkale. Ciò che scorgo è nettamente superiore alle aspettative. Pamukkale significa in turco “castello di cotone” , questo straordinario paesaggio mi accoglie con tutto il suo candore che si staglia in bianche cascate pietrificate, uno spettacolo naturale dovuto all’alta presenza di calcare nell’acqua che sgorga indomita alla gradevolissima temperatura di 37°. L’impatto visivo di questo sito termale è a dir poco mozzafiato, la giornata è soleggiata e tutte le cromature del bianco fino all’azzurro sono stature e brillanti, quasi accecanti. Così mi godo il mio momento di ristoro con i doloranti piedi messi in ammollo in queste acque benefiche, ammirando il folgorante regalo che la natura ci fa immeritatamente.

BODRUM

Dopo diverse ore di bus, otto circa, arrivo a Bodrum, e per lei vorrei trovare parole più entusiaste rispetto alle mete precedenti, tuttavia mentirei. Bodrum è un elegante cittadina che si affaccia sul Mar Egeo, sicuramente molto ben curata rispetto al resto che ho appena visitato. Tutto in Turchia sembra essere avvolto da un manto storico importante, qui romani, persiani e bizantini solcarono le cristalline acque. Il suo paesaggio è prevalentemente quello noto alle isole mediterranee, caratterizzato da una rigogliosa natura che dona uno sfondo verde che si macchia del viola delle buganvillee. Come ogni cittadina di mare che si rispetti detiene spiagge bianche e autentici villaggi di pescatori, i suoi colori architettonici prediletti? Provate ad indovinare, bianco e blu (innovazione). Personalmente credo che Bodrum sia il finale migliore dopo un viaggio di così tanti chilometri, tuttavia non mi tratterei più di due giorni. Ho notato che questa cittadina di mare è molto amata anche dai turchi expats, con cui ho avuto il piacere di fare conoscenza nel mio camping. Mi hanno spiegato che molti turchi espatriati, che vivono in grigie cittadine della Germania o dell’Olanda sono soliti tornare in Turchia per le vacanze estive. Dopo esser passati a salutare il parentado, molti di loro scelgono Bodrum come “vera vacanza”, perciò non troverete solo turisti stranieri ma anche molti autoctoni.

Lascio questo terra con enorme tristezza, questo viaggio è stato il primo fuori dall’Italia ed il primo, nuovamente da sola. Avevo bisogno di mettermi nuovamente alla prova dopo due annetti di statica sedimentazione e portavo con me un bagaglio di mille timori. Prima di partire ogni tipo di fobia attanagliava la mia mente, facendomi immaginare un mondo oscuro, cattivo e spaventoso. Tuttavia, appena ho messo piede in aeroporto, mi sono da subito resa conto che il mondo è un luogo benevolo così come i suoi abitanti ed in questo momento, proprio mentre sto scrivendo, la mia mente passa in rassegna dei bellissimi frame delle persone che ho conosciuto. Viaggiatrici solitarie come me, famiglie, coppie innamorate ed anche annoiate, ma una di loro merita di essere ricordata più di altre, si tratta di una signora di mezza età moldava che si è presa le sue tanto agognate ferie e che mi prima di salutarmi in un aeroporto di Istanbul convulso, con il suo adorabile accento dell’est, fa la sua uscita di scena con una frase degna dei migliori film d’essai: « Mia cara ragazza ti saluto, è stato un piacere volare con te, ma ricordati viaggiare è prendersi cura di sé e se non lo facciamo da sole, chi altro lo farà? »

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Anastasia Galvani

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